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Gustavo Giovannoni

 
Gustavo Giovannoni nacque a Roma il 1° genn. 1873, da Leonida e da Elena Rossi. Dopo avere compiuto gli studi liceali e frequentato il biennio fisico-matematico, conseguì la laurea in ingegneria nel 1895, presso la Scuola di applicazioni di Roma. Nell’anno successivo ottenne il diploma presso la Scuola superiore di igiene pubblica.A modificare un profilo didattico-formativo inizialmente tagliato su quello dell’ingegnere civile giunse, nel 1897, l’incontro con Adolfo Venturi. Nel biennio successivo, egli frequentò il corso di storia dell’arte medievale e moderna, nell’ambito della scuola di specializzazione, istituita dallo stesso Venturi nel 1896 presso la facoltà di lettere di Roma. Nel 1898 pubblicò i suoi primi articoli sulla rivista L’Arte, dedicati allo studio di monumenti romani.Dal confronto con Venturi e con la sua scuola ebbe origine un progressivo avvicinamento ai circoli artistici e al mondo delle nascenti associazioni di architetti. Nel 1903 aderì, in qualità di membro effettivo, all’Associazione artistica tra i cultori di architettura di Roma, nata nel 1890 con l’obiettivo di rivendicare per l’architetto spazi professionali allora monopolizzati dall’ingegnere. Di questa associazione il G. divenne vicepresidente nel 1906 e, infine, presidente nel 1910.Nel frattempo il giovane ingegnere si avvicinò anche ai circoli dell’erudizione storica e al gruppo di studiosi che facevano capo alla Rivista storica italiana. Da questi incontri, e in particolare dal legame di amicizia con Pietro Egidi e Federico Hermanin, scaturì il primo studio sistematico sull’architettura del passato: la monografia sui Monasteri di Subiaco (Roma 1904).

Di quegli stessi anni è la sua attività di assistente presso la cattedra di architettura tecnica (1899) e quella di architettura generale (1903) della scuola per ingegneri, affiancata alla libera professione per lo più orientata verso la progettazione di edifici strutturalmente complessi.

Tra questi si segnalano i progetti per la Società Birra Peroni a Roma, e in particolare lo stabilimento con annessa fabbrica del ghiaccio, del 1909 (nel 1901 aveva disegnato la galleria annessa alla birreria). In entrambe le circostanze il G. impiegò la nuova tecnologia costruttiva del cemento armato, importata proprio in quegli anni dalla Francia, secondo un sistema codificato con il nome di “Brevetto Hennebique”: travi e pilastri a vista vi rivelano una concezione strutturale dell’edificio, ben evidenziato nelle sue parti e nei suoi caratteri costitutivi (un settore di questo edificio è ora sede della Galleria comunale d’arte moderna e contemporanea, via Reggio Emilia).

Nel 1914 vinse il concorso per la cattedra di architettura generale; e, dopo la guerra, a questo insegnamento affiancò quello di restauro dei monumenti presso la neocostituita Scuola superiore di architettura di Roma: nella nuova istituzione, dove fu l’Associazione artistica fra i cultori di architettura a fornire i ranghi della docenza, il G. figura dall’inizio tra le personalità di maggior spicco, arrivando ad assumerne la direzione tra il 1927 e il 1933. Nel 1921, in un clima di rinsaldata collaborazione tra i membri dell’Associazione artistica, nacque la rivista Architettura e arti decorative per impulso di Marcello Piacentini e dello stesso Giovannoni.

Nel 1916 il G. fu nominato membro del Consiglio superiore di antichità e belle arti: questa funzione di superconsulente ministeriale gli permise di esaminare una grande quantità di progetti collocati all’intersezione di problemi e di scale diversi, distribuiti sull’intero territorio nazionale. Da questo osservatorio egli poté infatti spaziare, per quaranta anni, dai temi del restauro architettonico a quelli più legati alla dimensione urbana, dalle questioni proprie dello storico a quelle del progettista.

Fu significativo anche il suo impegno in materia di piani urbanistici, in relazione ai problemi di Roma e soprattutto del suo centro antico: in seguito alle proposte per la sistemazione del “quartiere del Rinascimento”, avanzate a più riprese tra il 1908 e il 1911, entrò a far parte delle varie commissioni comunali chiamate ad approntare un piano organico di interventi.

Risale al 1920 l’incarico di coordinare il progetto per la “città giardino” dell’Aniene, nell’area di Montesacro: al centro di una trama viaria, ispirata ai modelli inglesi di garden suburb, il G. disegnò nel 1922 in forme tradizionali la chiesa degli Angeli Custodi.

In pianta e in alzato, l’edificio riprodusse modelli barocchi a pianta allungata. Anche in questo caso emerge il dualismo tra l’ingegnere, capace di cimentarsi con le tecniche più aggiornate, e il cultore di storia romana legato a riferimenti stilistici di ispirazione locale.

La sua attenzione di esperto in urbanistica si soffermò quasi esclusivamente sulle zone centrali di Roma; parte di una più che ventennale esperienza in questo campo confluì in uno schema di piano regolatore per la città, formulato nel 1929 e presentato a nome del “gruppo La Burbera”. La proposta cadde nel momento in cui era in discussione l’incarico per il piano ufficiale; e questo non poteva non dare luogo a incomprensioni e a polemiche: specie con il concorrente Piacentini, rispetto al quale questo “saggio di urbanistica romana” segna l’atto di definitivo distacco. Se da un lato le discussioni lo allontanarono dal milieu piacentiniano, dall’altro gli aprirono la via verso il coincarico per la redazione del nuovo piano regolatore nel 1930. Questo sfortunato schema, che Benito Mussolini volle tracciato in soli sei mesi, restò lettera morta e segnò per il G. la fine di una ventennale attività di progettista-urbanista.

A partire dal 1929 e dalle voci Architetto e Architettura, egli iniziò la collaborazione con l’Enciclopedia italiana, per conto della quale trattò alcuni fondamentali soggetti sull’argomento.

Dall’inizio degli anni Trenta, a costituire il prevalente campo di interessi fu l’architettura del passato, specialmente quella che si connette ai grandi episodi della Roma cinque-seicentesca. Soprattutto dopo il 1935, egli si dedicò allo studio di una serie di grandi figure: Donato Bramante, Gian Lorenzo Bernini e, soprattutto, Antonio da Sangallo il Giovane, sulla cui opera uscì postuma la sua monografia più completa. Nella sfera delle ricerche più marcatamente filologiche rientrano anche gli interventi illustrati nell’ambito dei congressi di storia dell’architettura che si tennero a Firenze (1936), ad Assisi (1937), a Roma (1938) e a Milano (1939). A questo impegno di studioso egli unì, nello stesso periodo, una ininterrotta attività di consulente ministeriale, di organizzatore in grado di proporre nuovi assetti didattico-amministrativi. A quella fase risalgono i suoi sforzi per dare vita a nuove istituzioni nel campo dello studio, della conservazione e del restauro dei monumenti: un Istituto nazionale di restauro, una scuola di specializzazione, una rivista a diffusione nazionale, un’associazione e un centro nazionale di studi.

Lungi dal realizzarsi compiutamente, i progetti del G. furono all’origine di alcune iniziative in quegli stessi anni: tra queste, la nascita della rivista Palladio (1937) e la fondazione del Centro di studi di storia dell’architettura (1938).

Gli anni della seconda guerra mondiale coincidono con la fine del suo pluridecennale impegno di insegnante e di membro del Consiglio superiore di antichità e belle arti: dei molti incarichi, a suo tempo ricoperti, non restano che quello di presidente del Centro di studi dal 1938 al 1947 e dell’Accademia di S. Luca.

Attivo fin all’ultimo in veste di studioso, il G. morì a Roma il 15 luglio 1947.

Il fondamentale apporto del G. all’architettura italiana del XX secolo è da ricercarsi nella sua opera di studioso e di teorico, ben più che nella sua limitata attività di progettista e di urbanista. Il campo delle sue ricerche è molto ampio, ma può essere circoscritto a un ambito specifico: lo studio dei monumenti architettonici e dei centri antichi con riferimento, quasi costante, alla straordinaria casistica offerta dalla sua città natale.

Dall’architettura romana, dalla necessità di analizzarla e di valorizzarla ebbe infatti origine una serie di considerazioni di carattere generale e metodologico; poste in una prospettiva di ampio respiro, esse andarono a investire settori allora in formazione quali la storia dell’architettura, l’urbanistica e il restauro dei monumenti. Con il suo impegno di studioso, attento ai possibili raccordi con problemi legislativi e formativi, il G. diede un contributo determinante a una formulazione scientifica di questi tre settori nella fase in cui sembravano uscire da una condizione di indeterminatezza.

Questi suoi sforzi devono essere collegati alla realizzazione di un quadro didattico-professionale come si configurava alle soglie degli anni Venti, attorno alla rinnovata figura dell’architetto: scuole, albi, sindacati e quant’altro serve a definirne sia il campo di azione, sia il profilo culturale e formativo. In particolare il G. ebbe un ruolo determinante nel varo della legge sulla professione dell’ingegnere e dell’architetto (1923): ma il suo nome si lega soprattutto all’episodio che fa da necessario sfondo a quel provvedimento ovvero la nascita, presso l’Università di Roma, della Scuola superiore di architettura, la prima del genere a essere istituita in Italia. Attivata nel 1920 con il suo fondamentale concorso, la Scuola diventò infatti il modello per le facoltà che sorsero in Italia nel decennio successivo.

Secondo uno schema già tracciato dal G. nel 1907, vi risultavano accorpati filoni didattici che tradizionalmente fanno capo a percorsi diversi: le materie fisico-matematiche afferenti alle scuole di ingegneria, la storia e l’archeologia di estrazione umanistica, il disegno e il rilievo tipici delle accademie di belle arti. La figura che ne emergeva era quella di un progettista “integrale”, capace di cimentarsi con i problemi sia dell’arte sia della tecnica. Suoi campi di pertinenza, oltre all’architettura in senso stretto, furono le nuove discipline in formazione.

Alla base del nuovo sistema formativo vi era comunque una non superficiale conoscenza dell’architettura del passato: “la tradizione di magnifici ricordi che vive nei nostri monumenti”, come egli affermò nella prolusione al primo anno accademico. Un metodo per la storia dell’architettura appare da lui già elaborato attorno al 1904.

Lo testimonia la già citata opera in due volumi, I monasteri di Subiaco, scritta in collaborazione con storici, archeologi e presentata come esempio di “monografia dal carattere molteplice”. Accanto alla parte sull’architettura, curata dal G., vi sono specifiche sezioni dedicate alle “Notizie storiche”, a “Gli affreschi”, a “La biblioteca e gli archivi”. Nella descrizione dei manufatti architettonici, il G. applica quello che egli definisce il “metodo positivo”, ovvero la registrazione delle trasformazioni subite nel corso del tempo da un tipo edilizio.

Più che Venturi (con il quale entrò in conflitto per divergenze di tipo metodologico) il suo riferimento fu Auguste Choisy con la sua opera di storico della costruzione: egli aveva delineato una sequenza che dagli Egizi giungeva fino alle soglie del XX secolo. Come testimoniato dalla corrispondenza nel 1905-06, il G. ne riprese la visione deterministica secondo una linea evolutiva delle fasi storico-stilistiche che coincideva con il mutare delle tecniche costruttive.

Nel corso degli anni Trenta del Novecento, l’ingegnere-umanista ebbe modo poi di attenuare il determinismo tipico delle sue prime opere. Le ricerche sull’architettura romana lo condussero verso altri metodi di analisi, permettendogli di sviluppare un’attenzione filologica verso gli ordini classici e le forme di reimpiego a partire dal XV secolo; lo testimoniano i suoi studi sull’architettura del Rinascimento, elaborati tra il 1934 e il 1937, e gli interventi illustrati nell’ambito dei congressi di storia dell’architettura nei secondi anni Trenta.

Eppure nella polemica che ebbe con Venturi nel 1938, il G. ribadì il primato di un approccio “positivo”: in quell’occasione invitò a tralasciare gli aspetti figurativi insiti nel manufatto, per sottolineare invece il dato materiale e costruttivo. Di qui la necessità di procedere a un esame diretto dell’edificio-documento, da leggersi soprattutto nella sua consistenza edilizia: ribadendo questo punto di vista “materialista”, l’autore riconfermava la sua appartenenza al filone degli ingegneri-storici che lo legava, prima di Choisy, a Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc.

Sullo sfondo dei monumenti vi è la dimensione urbanistica, necessario complemento alla realizzazione di studi sistematici; in questo campo il G. elaborò una visione originale, focalizzata sul problema dei centri antichi, della loro salvaguardia e della loro valorizzazione.

A stimolare le sue riflessioni in questa materia furono soprattutto le vicende del piano regolatore di Roma, nel tempo compreso tra il cosiddetto piano Sanjust (1908) e lo schema formulato nel 1930: dalla prima controproposta per l’allargamento di via dei Coronari (1910) fino alla stesura di un vero trattato (Torino 1931), dal titolo di Vecchie città ed edilizia nuova (ripubblicato a cura di F. Ventura, Milano 1996), il G. elaborò una teoria dell’accordo capace di conciliare le ragioni della trasformazione in senso moderno con una strategia di conservazione e di valorizzazione dell’edilizia storica. “Diradamento” (contrapposto al più brutale “sventramento”) è l’espressione che, a suo avviso, riassume il termine di questa possibile strategia per i centri storici italiani.

Costellati di grandi episodi cinque-seicenteschi, Roma e, in particolare, il “quartiere del Rinascimento” offrono uno straordinario terreno di verifica. Qui più che altrove i problemi urbanistici, se visti in un’ottica onnicomprensiva, si sovrappongono a quelli della conservazione offrendo eccezionali sinergie. Nel margine compreso tra l’analisi del monumento e lo studio dei centri antichi si offre un campo esclusivo alla nuova figura di architetto così come esce dalle neocostituite facoltà modellate sull’esempio della Scuola romana.

Oltre a un metodo per l’indagine storico-artistica, il G. fornì indicazioni di tipo progettuale. In materia di restauri, per esempio, vi è chi ha visto in lui il padre di una moderna concezione: egli avrebbe tracciato i fondamenti di una teoria e di una disciplina, attraverso una cosiddetta “carta del restauro” messa a punto intorno al 1931. Si tratta in realtà di una serie di indicazioni stilate dal Consiglio superiore, diffuse sotto forma di circolari della direzione di Antichità e belle arti e direttamente ispirate dal G., in qualità di membro autorevole; le prescrizioni furono poi trasmesse alle sovrintendenze e costituirono di fatto norme unificanti in materia di restauri. Vi si esorta, nel caso di aggiunte, alla documentazione sul versante analitico e alla differenziazione sul versante operativo. Nell’ottobre 1931, nel corso della Conferenza internazionale di Atene, alcuni di questi principî furono fissati in forma di decalogo.

Per affrontare i “grandi quesiti posti dal restauro”, a suo avviso, non occorrevano costruzioni dottrinarie, sotto forma di carta o di trattato. Ben più efficace era, per lui, un’unica figura con varie competenze fino a quel momento disperse tra diversi esperti: la capacità di leggere il manufatto nella sua sostanza storica e nella sua consistenza costruttiva, l’attitudine a ripensarlo secondo le regole sia dell’arte, sia della tecnica. Qualcosa di simile cioè ai pareri che il G. rilasciava di volta in volta, nelle vesti di membro itinerante del Consiglio superiore. Per tutto questo, a garantire la distanza dal “dilettantismo” sembrava sufficiente il sapere composito del nuovo architetto, a patto che egli fosse in grado di muoversi agilmente tra monumento e documento, tra la sponda dell’artista e quella propria del costruttore.

È nell’ampliamento della nozione di tutela che va forse collocato l’apporto più originale del G. in materia di conservazione e di restauri. Ed è in un’area di cerniera tra le discipline in formazione che egli elaborò una strategia di valorizzazione, applicabile alle diverse scale di intervento: da un lato egli esortò a tutelare e restaurare l’ambiente urbano, come se si trattasse di un’unica, grande opera architettonica. Dall’altra parte occorreva, a suo giudizio, collocare il monumento nell’ambiente da cui traeva significative motivazioni: anche singoli episodi architettonici dovevano essere trattati in una dimensione urbana, così come lo spazio che meritava a sua volta una considerazione di norma riservata alle grandi emergenze.

Tutto questo rientra in un ambito che non è della storia architettonica, del restauro dei monumenti o dell’urbanistica, ma comprende questi tre campi in una visione unitaria: qualcosa di simile a quanto oggi è definito come “conservazione dei beni architettonici e ambientali”.

In questo settore il peso del G. è stato decisivo, e questo vale per molteplici aspetti: l’affinamento di una teoria, per la messa a punto di una prassi d’intervento, oltre che di un quadro legislativo. La legge n. 1497 del 1939 (sulla protezione delle bellezze naturali) reca il suo nome: si tratta di quel dispositivo che, a tutt’oggi, permette alle sovrintendenze di esercitare l’azione di tutela su vasti ambiti territoriali e urbani, secondo una stretta correlazione tra politiche differenti (si veda a questo proposito l’articolo Restauro dei monumenti e urbanistica, pubblicato in Palladio nel 1943).

Il suo impegno si è dunque collocato su versanti separati, ponendosi a metà strada tra i problemi dello studio e quelli dell’amministrazione dei monumenti, nell’intento di offrire un settore di esclusiva pertinenza alla nuova figura dell’architetto “integrale”.

di G. Zucconi
Tratto da Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 56 (2001)
Treccani.it (www.treccani.it)